
lunedì 26 ottobre 2009
Il pianoforte di Glen Gould

giovedì 15 ottobre 2009
Perle ai porci

Uno dei nostri maggiori gestori di telefonia mobile offre, tra le sue tariffe dedicate ai più giovani quella denominata “tribù”, termine che non casualmente compare in una delle due citazioni ex ergo che aprono il volume Perle ai porci, Rizzoli 24/7 di Gianmarco Perboni. E’ di Filippo Scozzari e recita così: ”I Ragazzini della tribù Feh-rocja, quando cominciano a rompere troppo i coglioni, che colà sono sacri, vengono spediti sulla montagna Cannibala; quando tornano, se tornano, sono un modello di educazione e compitezza.” La tribù di cui si occupa Perboni, pseudonimo deamicisiano scelto da un insegnante reale con ventennale esperienza, è quella degli stolidi studenti italiani di scuola superiore, raccontata attraverso un diario esilarante ed amaro, redatto dalla cattedra di un istituto tecnico. In antropologia la definizione di tribù ci parla di un raggruppamento umano in possesso di una relativa omogeneità culturale e linguistica e dunque gli studenti qui ritratti non arrivano neanche a questa seppur primitiva organizzazione sociale. Un’anno lungo un’Odissea attraverso le nefandezze di una generazione “…scoraggiante, irrecuperabile, bovinamente supina.” Nomi inventati (e spassosissimi) e fatti reali. Un quadro terribile (ahimè autentico) della scuola italiana, nella quale gli insegnanti contano quanto il due di picche (Perboni usa una metafora più puzzolente) e il concetto di responsabilità individuale sembra perduto per sempre. Così “…la colpa del fancazzismo dello studente è nell’ordine: del professore, della famiglia ,della scuola. L’idea che possa trattarsi semplicemente di buona, sana, vecchia mancanza di voglia di studiare – che per generazioni è stata curata con una buona ,sana ,vecchia bocciatura, non sfiora nessuno.” Parole sante. Di fronte a questa realtà secondo lo scoglionatissimo Perboni c’è una sola via d’uscita: il professore diventa una carogna, disilluso, stanco di “…lottare contro i mulini a vento…” , un uomo che “…vive alla giornata contento se qualche sprovveduto ha deciso di rischiare la pelle portando in gita una classe degna del riformatorio, lasciandogli un’ora libera per leggere il giornale.” Nel susseguirsi dei capitoli egli si imbatte ciclicamente anche nei problemi della scuola che si ostina a non voler trattare, ma da cui non può astenersi del tutto di parlare e così ci mostra la sua abilità nel redigere in “didattichese” (una prosa forbita ed assolutamente priva di senso), documenti che rappresentano la pura e semplice insignificanza linguistica: dialettiche interculturali, offerte formative, strategie esplicitate, strumenti di verifica, attività di rimozione delle resistenze e via così da un non sense all’altro. Si ride molto scorrendo le pagine di Perle ai porci. E si riflette anche. Bella penna Giorgio Perboni.
Eppure andando avanti nella lettura un dubbio sorge: una certa propensione alla malvagità forse Perboni la possedeva in origine. L’insegnante missionario infatti, una delle tipologie umane di cui il nostro narra il naufragio, ci ricorda un dato di fatto: l’insegnamento è una missione, una vocazione la cui chiamata forse non è mai giunta all’indirizzo dell’autore. E individuare nel sessantotto la nascita della tragedia (non quella nicciana) che ha travolto la nostra scuola , ha senso soltanto intesa all’inverso di ciò che Perboni sostiene. Non è la reazione a quel movimento che ha portato la scuola nelle condizioni disastrate di oggi ma proprio l’affermarsi di quelle istanze pseudorivoluzionarie. Ed il sei a tutti costi di cui Perboni lamenta la richiesta da parte degli studenti odierni è soltanto la degenerazione di quel tristo “18 politico” creato da quei “formidabili” anni di capanniana memoria. Come fa il nostro deamicisiano professore a prendersela con cinquant’anni di scudo crociato quando da almeno quaranta (dal sessantotto appunto) l’istruzione e la cultura di questo paese sono state saldamente in mano alla parte politica (left oriented) da cui egli stesso proviene? Forse una buona, sana, vecchia autocritica non farebbe male anche a lui.
mercoledì 14 ottobre 2009
Pollini torna a casa

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lunedì 12 ottobre 2009
Pellèas e Mèlisande

“La natura è un tempio in cui dei vivi pilastri lasciano talvolta uscire confuse parole; l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli che lo osservano con sguardi familiari. Come lunghi echi che di lontano si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e la luce, i profumi , i colori e i suoni si rispondono.” Inizia così il sonetto “Correspondances” nel quale Charles Baudelaire (1821-1867) fissa quello che può essere considerato il manifesto del simbolismo poetico francese di cui Claude Debussy (1862-1918), mettendo in musica il dramma del belga Maurice Maeterlinck “Pelléas e Mélisande”, fece proprie le istanze seppur adeguandole alla propria originale e per molti versi sovvertitrice poetica. Dieci anni di lavoro non privi di aspri dissensi con il drammaturgo belga portarono nel 1902 ad una prima esecuzione accolta piuttosto freddamente dal pubblico dell’Opera di Parigi. Fu soltanto qualche anno dopo che l’opera si affermò per quel capolavoro che è senza tuttavia mai raggiungere la popolarità di una Carmen o di un Verdi qualsiasi. Non è un caso del resto perché di opera assai complessa si tratta sia nella messa in scena che dal punto di vista musicale. L’orchestra di Debussy è volta alla cristallizzazione dell’attimo così come l’impressionismo nella pittura (l’altra corrente artistica che influenzò il musicista francese), un’arte quindi attenta alla ricerca della bellezza avulsa da qualsiasi dialettica e tesa all’isolamento della singola illuminazione. In questo egli può essere davvero considerato il fondatore del novecento musicale. Il germe di quella contrazione linguistica che culminerà nelle scariche elettriche fulminanti dei pezzi per pianoforte di Anton Webern e Arnold Schönberg, è qui già latente.
E’ evidente che una musica siffatta fosse quanto di più distante si potesse immaginare dall’opera che è costituita al contrario di azione, declamazione , assertività. Per questo quando Debussy vide Pelléas e Mélisande ne rimase profondamente turbato e comprese che quella poteva essere la storia adatta al teatro musicale che aveva in mente, costruito su un gioco di rimandi, dove il non detto è di gran lunga più importante di quel che avviene sulla scena. L’amore tra i due protagonisti infatti non è dichiarato che un attimo prima della catastrofe, quando Golaud scopre ed uccide il fratello Pelléas e sfiora appena la consorte Mélisande la quale morrà lo stesso, come un uccellino che, incapace di volare, si spenga mestamente. Gianluigi Gelmetti ha dato l’impressione di possedere completamente quest’opera ed assecondato da un compagnia di cantanti ineccepibile anche attorialmente, ha diretto da par suo l’orchestra dell’Opera di Roma in grande forma che ha restituito con veridicità il tessuto sottile della partitura. Bene quindi la parte musicale che, come non si ripeterà mai abbastanza, è quella principale nell’opera che anzitutto di note è fatta. Ma il teatro è anche regia, costumi, scene e qui bisogna aprire un discorso diverso. Come mai nell’epoca della filologia, della prassi esecutiva, dell’attenzione maniacale alle minime notazioni musicali degli autori si accompagna invece il totale stravolgimento dei libretti? E dire che “Pelleas e Melisande” , libretto nel senso stretto del termine non è, perché Debussy volle mettere in musica l’intero dramma di Maeterlinck ( e così fece salvo qualche taglio ) quindi far carne di porco delle indicazioni sceniche vuol dire venir meno infischiandosene, degli intendimenti di due autori. Arkel è il re di Allemonde e Golaud e Pelleas sono due principi. Perché vestirli di stracci con le infradito ai piedi rendendoli tre barboni? E perché in luogo del castello dove vivono troviamo un utero sezionato? Ed ancora perché fare di Melisande (una bravissima Monica Bacelli)una specie di Pierrot Lunaire espressionista, calva per giunta laddove non si fa altro nell’opera che esaltarne le chiome fluenti? Ce lo fate vedere signori registi, scenografi e costumisti (stracciaroli) moderni, un re vestito da re con la corona in testa o siete troppo preoccupati di vendere un prodotto che faccia parlare di voi piuttosto che servire quegli autori che, volenti o nolenti, sono quelli che vi danno da mangiare? The answer my friends is blowin’in the wind….
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venerdì 9 ottobre 2009
Onore ai caduti
Quando la tristezza ed il lutto ci stringono il cuore cerchiamo di allentarne la morsa andando a cercare qualche ricordo allegro, spensierato. La condizione di quando si è giovani e si ha il cuore traboccante di sogni. Sogni spezzati per Antonio, Davide, Matteo, Roberto, Massimilano e Giandomenico, paracadutisti saliti in cielo per non saltare più. Dall’aereo infatti non ci si butta, si salta . E’ un tuffo verso le nuvole . Chi sceglie questo corpo ama l’azzurro della volta celeste e la sensazione che si prova attraversandola in volo.
Anche a me piaceva volare e l’idea di salire su di un aeroplano senza poi doverci atterrare aveva un fascino irresistibile. Dunque quando ai tre giorni ( così si usava chiamare quel breve periodo in cui i maschi italiani diciassettenni venivano convocati al distretto militare per verificarne l’ idoneità al servizio) vidi quel soldato con il basco amaranto che reclutava volontari per il corpo dei paracadutisti , alzai la mano e firmai le carte per l’arruolamento. Fu subito dopo, appena il parà reclutatore fu uscito che gli altri ragazzi che condividevano con me quei momenti mi si avvicinarono allibiti. “Ma che sei matto?” – vociavano- “Si.” -risposi atteggiandomi un poco.
Ma non ero matto. Credevo però che dovendo passare un anno servendo il mio paese come soldato avrei preferito fare qualcosa di attivo piuttosto che trascorrerlo giocando a briscola in qualche ufficio di distretto militare. Certo è che quando dopo due anni arrivò la cartolina che mi assegnava alla scuola di paracadutismo di Pisa, non ne fui proprio entusiasta ma ormai era fatta. Partii non senza qualche timore. Mi avevano parlato di fascisti, di un corpo di invasati dove regnava il terrore ed invece trovai una spaccato d’Italia quale, nel mio mondo dorato della Roma bene, non potevo avere idea. Quando la vita è dura e faticosa gli uomini tendono ad affratellarsi. Se poi c’è un pericolo imminente ( e saltare da un aereo o da un elicottero in volo lo è) allora le amicizie nascono più facilmente. Di politica, in un anno passato tra Pisa e Livorno non intesi mai parlare. Trovai ragazzi generosi accomunati da un senso del dovere che mi era sconosciuto.
Del primo lancio ricordo ogni singolo istante. Da quando seduti sulla pista ci si mette il paracadute, controllandosi a vicenda ed affidando quindi la propria vita al compagno dietro di te, al momento in cui si aprono le porte e i motori rallentano fin quasi a fermarsi . Oltre la porta c’è il cielo, immenso e blu come può esserlo solo tuffandocisi dentro e quando salti fuori ed il vento ti gira di 90 gradi ti ritrovi a guardare la coda del C130 che sta sputando il tuo commilitone, quello uscito dopo di te. Tanto è veloce la sequenza del lancio dentro l’aereo quanto rallentato il tempo fuori dal velivolo. A quel punto il paracadute si apre e ti ritrovi seduto nell’aria, nel silenzio, immobile ti sembra, perchè la velocità di caduta non la valuterai che a pochi metri da terra. Allora ridi, forte, succede a tutti, chè se da una parte è il sintomo dello sciogliersi di una tensione accumulatasi giorno dopo giorno durante il corso di preparazione, dall’altra è felicità vera, gioia pura, di quella che ci è dato assaporare solo a vent’anni. E a quell’età la paura della morte non la si conosce convinti come si è di essere immortali.
Non facevo la guerra io, ma soltanto il servizio militare che allora era obbligatorio e che veniva considerato una perdita di tempo quando non qualcosa di peggio, un inutile addestramento ad una guerra che non sarebbe mai arrivata. Invece ora ne stiamo combattendo una contro un nemico spietato ed invisibile che non ci permette di contrastarlo. I nostri soldati muoiono spesso senza aver la possibilità di difendersi, nell’ipocrisia della “missione di pace” che stabilisce regole d’ingaggio adatte a proteggere l’ordine pubblico fuori da uno stadio di calcio, non a muoversi in mezzo ad un campo di battaglia. Non siamo in Afganistan per invadere questo paese ed occuparlo (questo significa il ripudio della guerra nella lettera della costituzione) ma per lottare contro il terrorismo e proteggere un popolo da una delle più sanguinarie e medioevali accolite di criminali che abbiano mai avuto in mano il governo di una nazione. Nemmeno Hitler sterminava i suoi connazionali con tanta ferocia ed indiscriminazione. A Kabul come a Bagdad ci sono islamici che uccidono altri islamici, senza discernimento, spietatamente. Ed odiano i nostri soldati che sono lì per proteggere gli inermi. E da questi sono amati e riconosciuti. Per farlo però devono prima salvaguardare se stessi. A ciò servono le armi che hanno in dotazione. Ma non c’è al mondo nulla di più inutile di una pistola scarica, e questo è troppo spesso ciò che i nostri soldati hanno in mano. Siamo in quella regione in nome della pace sì, ma anche per fare la guerra.
E’ disgustoso vedere la finta commozione di quelli che di fatto, sia a destra che a sinistra, disarmano le nostre forze armate e che sono poi i primi dopo ogni caduto (così si chiamano i morti in guerra) a parlare di ritiro. Ieri ho visitato il sito di Antonio Di Pietro che non capisce cosa ci stiamo ancora a fare laggiù e sostiene che bisogna ritirarsi. Lui se ne intende , lo ha già fatto quando nel 1994 ha lasciato la magistratura per dedicarsi all’attività certo più redditizia di uomo politico. Si ritiri lui.
Chi appartiene alla brigata Folgore non conosce questa parola. Quando ad El Alamein i paracadutisti si arresero agli inglesi lo fecero senza alzare le mani e con le armi in pugno. E i soldati britannici (quest’anno hanno perso 200 uomini a Kabul), che avevano lottato increduli della capacità di resistenza di quel manipolo di eroi, che erano e sono custodi una nazione che ha vinto tutte le guerre che ha combattuto, resero l’onore delle armi a quella bandiera con la folgore nel mezzo. Anche Winston Churchill in un famoso discorso alla camera dei comuni riconobbe il valore di quella brigata definendo quei ragazzi dei leoni. Chi diventa paracadutista non lo fa per i soldi. Mai.
Chi appartiene alla brigata Folgore non conosce questa parola. Quando ad El Alamein i paracadutisti si arresero agli inglesi lo fecero senza alzare le mani e con le armi in pugno. E i soldati britannici (quest’anno hanno perso 200 uomini a Kabul), che avevano lottato increduli della capacità di resistenza di quel manipolo di eroi, che erano e sono custodi una nazione che ha vinto tutte le guerre che ha combattuto, resero l’onore delle armi a quella bandiera con la folgore nel mezzo. Anche Winston Churchill in un famoso discorso alla camera dei comuni riconobbe il valore di quella brigata definendo quei ragazzi dei leoni. Chi diventa paracadutista non lo fa per i soldi. Mai.
Uno dei miei amici più cari, Luciano Ferrara, l’ho conosciuto lì. Dopo sei mesi passati insieme a Pisa io fui aggregato ad un'altra compagnia e venni trasferito a Livorno. Finito entrambi il servizio militare rimanemmo in contatto per un paio d’anni, lui a Torino ed io a Roma, successivamente cambiammo casa e ci perdemmo, non c’erano ancora i telefonini. Non ci siamo visti né sentiti per dieci anni cercandoci senza successo. Poi nel 1992 mi capitò di dover recitare a Torino. Stavolta ritrovo Luciano pensai, ho il suo vecchio indirizzo e qualcuno mi saprà dire dove abita. Il giorno del debutto ero ospite a Domenica In a Roma e per questo presi un’aereo con metà della mia compagnia che avrebbe dovuto atterrare alle 16 nel capoluogo piemontese. Ma quel giorno c’era la nebbia e il paracadute non lo avevo più, così dopo aver volato in cerchio per più di un’ora sopra l’aeroporto di Torino ci ritrovammo ad atterrare a Genova quando erano già le 18. Nebbia fitta anche lì. In teatro la legge prevede che se un attore non arriva in tempo deve pagare l’incasso della sala piena, così ci affidammo alla pazzia di due tassisti genovesi che per un milione di lire guidarono nella nebbia scaricandoci davanti al teatro alle 21 in punto, ora di inizio dello spettacolo. La sala era già piena. Scesi dal taxi con il cuore in gola e mi trovai davanti Luciano. Aveva letto sul giornale che recitavo lì e mi aspettava dal pomeriggio. Ci abbracciammo commossi. Non ci siamo più persi da allora e giovedì dopo aver saputo della strage di Kabul ho chiamato lui, il mio vecchio amico parà.
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