sabato 11 luglio 2009

Lang Lang a Roma con Tom e Jerry



Ventiquattro anni fa a Shenyang, un bambino cinese di due anni vide in televisione il celeberrimo cartone animato di Hanna e Barbera in cui Tom e Jerry si incontrano sul palcoscenico di una grande sala da concerto dove Tom il gatto, fasciato da uno splendido frac, si esibisce suonando la rapsodia ungherese n.2 di Franz Liszt mentre il topino Jerry, nascosto nel pianoforte, gliene combina di tutti i colori. Quel bambino, che si chiamava Lang Lang, si innamorò di quello strumento e decise che un giorno lo avrebbe suonato. Oggi a ventisei anni, Lang Lang è un’autentica star internazionale (la rivista Time lo ha inserito nelle 100 persone più influenti del mondo) e dopo un tour che lo ha portato attraverso i cinque continenti (ma dipendesse da lui credo suonerebbe senza problemi anche sulla Luna) è approdato a Roma dove l’accademia di S. Cecilia gli ha dedicato un minifestival che porta il suo nome:Lang Fest. E festa autentica è stata se dopo due ore e passa di concerto il pubblico romano, certo non facile agli entusiasmi, è scattato in piedi per una standing ovation di quattro minuti. D’altra parte l’entusiasmo è la caratteristica dominante dello sfavillante pianismo di questo virtuoso, capace di infiammare il pubblico quanto una rock star. Di più. Capace di portare all’Auditorium quasi 8000 persone (i concerti erano tutti fuori abbonamento) che senza alcun dubbio si sono divertite e questo, parlando di musica classica, è un fatto importante. Ciuffo ribelle ingelatinato, atteggiamenti istrionici ai limiti del contesto pur sempre serio all’interno del quale si muove, scarpe Adidas create appositamente e che portano il suo nome (nere a strisce d’oro), si è parlato di lui come di un fenomeno mediatico allestito per il marketing e certo in parte questo corrisponde al vero. Bisogna dire però che un simile carrozzone non si costruisce sul nulla. Perché di fenomeno autentico si tratta e dei più eclatanti. Talento allo stato puro, che in quattro serate, diversissime tra loro, ha avuto modo di esprimersi per sottolineare la versatilità di questo ventiseienne, cui Dio ha donato dita meravigliose che egli ha successivamente provveduto, attraverso una tecnica trascendentale, a rendere una macchina pianistica perfetta. Nelle quattro date romane, dal 2 al 5 giugno, ha suonato nell’ordine: in un quintetto con i solisti dell’orchestra dell’Accademia, come solista, quale accompagnatore di bel canto con Cecilia Bartoli e con l’orchestra dell’Accademia diretta da Cristoph Eschenbach. Dovendo operare una scelta ho optato per il concerto solistico che presentava un programma di assoluto interesse: dallo Schubert (1797-1828) sommo della sonata postuma in la maggiore D. 959, alla Polacca op.53 in la bemolle maggiore di Chopin (1810-1849) , passando attraverso la sonata (unica) di Bela Bartòk (1881-1945) per finire con alcune gemme di Claude Debussy (1862-1918) tratte dal primo e secondo libro dei Preludi. Un programma da far tremare i polsi che Lang Lang ha invece snocciolato tutto a memoria (escluso Bartòk) con una semplicità a tratti disarmante, dimostrando anche in questo una prodigiosa attitudine. Grande divertimento dunque ed il merito di portare verso la musica colta un pubblico nuovo, diverso da quello fedelissimo, ma un poco museale, degli abbonati. Se ne è avuta conferma quando alla fine del primo movimento della sonata di Schubert, quasi l’ intera platea è esplosa in un applauso fuori luogo dettato sì dall’entusiasmo ma anche dalla scarsa conoscenza della forma musicale che si andava dipanando. Detto questo tuttavia, a livello emozionale si ha la sensazione di rimanere in superficie sì che Schubert, Bartòk, Debussy, Chopin, scorrono via uno dopo l’altro lasciandoci l’impressione di aver ascoltato un unico musicista: Lang Lang. Ora si tratta di stabilire un confine tra il virtuoso e l’interprete e se il pianismo di Lang ben si adatta alle forme musicali impressionistiche, costruite attraverso illuminazioni, colori, che risolvono se stesse nella brevità che le caratterizza, il discorso cambia laddove i tempi si dilatano. Così il dolente, struggente andantino della sonata D.959 di Schubert ,”…Giano bifronte sempre toccato dall’alito della morte”, secondo la splendida definizione di Thomas Mann, è trascorso asettico, privo di dolore. La musica, tra tutte le arti, è quella che parla al nostro intimo e lì Lang Lang non arriva. Latita il canto, nel senso letterale del termine, le melodie sono come inglobate in un universo che, se dal suo continuo divenire trae forza e vitalità, rischia però di risolversi in una esibizione di tecnica che se pur scintillante non basta a penetrare nel profondo dell’’animo. Anche la polacca op.53 di Chopin sembrava del tutto all’oscuro del sentimento di straziante nostalgia che il musicista in esilio nutriva per la sua patria lontana. Il dolore non si può studiare sui libri, va assaporato, vissuto per poter esser successivamente decantato in arte. E allora due strade sono innanzi al giovane virtuoso. La prima, più facile e redditizia è quella di gettarsi anima e corpo nelle esibizioni pubbliche. L’altra, più oscura ma alla fine artisticamente vincente, è l’approfondimento, lo studio, l’adeguare le proprie cognizioni alla tecnica affinchè essa rimanga un mezzo e non diventi un fine. Lang Lang fin’ora ha percorso la prima: dal 2 giugno alla fine di agosto si esibirà trentaquattro volte in pubblico, una media di un concerto ogni tre giorni. Certo Arturo Benedetti Michelangeli, che quei debussiani preludi studiò per cinque anni prima di eseguirli in concerto è un caso estremo ma lo stesso Maurizio Pollini di cui appena diciottenne si parlava come un nuovo Liszt, si dedicò all’attività concertistica con grande parsimonia. E se ne sono poi visti i risultati. Una carriera perfetta sotto ogni punto di vista. In un’intervista a Gino Castaldo su “La Republica” dello scorso mese Lang dice che fare il pianista classico non vuol dire chiudersi in una scatola; ha senz’altro ragione ma tra chiudersi in scatola e fare un concerto un giorno sì e uno no, crediamo esista una via di mezzo. Forse allora, adesso che a soli ventisei anni è già il pianista più famoso del mondo, può ripensare alla sua carriera, volgere lo sguardo e forse esplorare l’altra via. Magari in compagnia di un grande mentore che sembra averlo preso sotto la sua ala: quel Daniel Baremboim la cui acutezza di musicologo non è seconda alle doti immense di pianista. Altrimenti corre il rischio di diventare come il suo eroe Tom, rutilante, simpatico e divertente ma pur sempre un cartone animato.