Esito trionfale dicevamo e non soltanto grazie a Pappano e i meravigliosi “akademiker” ma anche al coro e ai solisti Emma Bell, Anna Larsson, Roberto Saccà e Georg Zeppenfeld , compagnia di prima grandezza e senza eccezioni totalmente all’altezza del gravoso impegno. La messa è finita, andiamo in pace. Grazie Beethoven, grazie Pappano, insieme a voi rendiamo grazia a Dio.
lunedì 9 novembre 2009
La Missa
Esito trionfale dicevamo e non soltanto grazie a Pappano e i meravigliosi “akademiker” ma anche al coro e ai solisti Emma Bell, Anna Larsson, Roberto Saccà e Georg Zeppenfeld , compagnia di prima grandezza e senza eccezioni totalmente all’altezza del gravoso impegno. La messa è finita, andiamo in pace. Grazie Beethoven, grazie Pappano, insieme a voi rendiamo grazia a Dio.
lunedì 26 ottobre 2009
Il pianoforte di Glen Gould
giovedì 15 ottobre 2009
Perle ai porci
Uno dei nostri maggiori gestori di telefonia mobile offre, tra le sue tariffe dedicate ai più giovani quella denominata “tribù”, termine che non casualmente compare in una delle due citazioni ex ergo che aprono il volume Perle ai porci, Rizzoli 24/7 di Gianmarco Perboni. E’ di Filippo Scozzari e recita così: ”I Ragazzini della tribù Feh-rocja, quando cominciano a rompere troppo i coglioni, che colà sono sacri, vengono spediti sulla montagna Cannibala; quando tornano, se tornano, sono un modello di educazione e compitezza.” La tribù di cui si occupa Perboni, pseudonimo deamicisiano scelto da un insegnante reale con ventennale esperienza, è quella degli stolidi studenti italiani di scuola superiore, raccontata attraverso un diario esilarante ed amaro, redatto dalla cattedra di un istituto tecnico. In antropologia la definizione di tribù ci parla di un raggruppamento umano in possesso di una relativa omogeneità culturale e linguistica e dunque gli studenti qui ritratti non arrivano neanche a questa seppur primitiva organizzazione sociale. Un’anno lungo un’Odissea attraverso le nefandezze di una generazione “…scoraggiante, irrecuperabile, bovinamente supina.” Nomi inventati (e spassosissimi) e fatti reali. Un quadro terribile (ahimè autentico) della scuola italiana, nella quale gli insegnanti contano quanto il due di picche (Perboni usa una metafora più puzzolente) e il concetto di responsabilità individuale sembra perduto per sempre. Così “…la colpa del fancazzismo dello studente è nell’ordine: del professore, della famiglia ,della scuola. L’idea che possa trattarsi semplicemente di buona, sana, vecchia mancanza di voglia di studiare – che per generazioni è stata curata con una buona ,sana ,vecchia bocciatura, non sfiora nessuno.” Parole sante. Di fronte a questa realtà secondo lo scoglionatissimo Perboni c’è una sola via d’uscita: il professore diventa una carogna, disilluso, stanco di “…lottare contro i mulini a vento…” , un uomo che “…vive alla giornata contento se qualche sprovveduto ha deciso di rischiare la pelle portando in gita una classe degna del riformatorio, lasciandogli un’ora libera per leggere il giornale.” Nel susseguirsi dei capitoli egli si imbatte ciclicamente anche nei problemi della scuola che si ostina a non voler trattare, ma da cui non può astenersi del tutto di parlare e così ci mostra la sua abilità nel redigere in “didattichese” (una prosa forbita ed assolutamente priva di senso), documenti che rappresentano la pura e semplice insignificanza linguistica: dialettiche interculturali, offerte formative, strategie esplicitate, strumenti di verifica, attività di rimozione delle resistenze e via così da un non sense all’altro. Si ride molto scorrendo le pagine di Perle ai porci. E si riflette anche. Bella penna Giorgio Perboni.
Eppure andando avanti nella lettura un dubbio sorge: una certa propensione alla malvagità forse Perboni la possedeva in origine. L’insegnante missionario infatti, una delle tipologie umane di cui il nostro narra il naufragio, ci ricorda un dato di fatto: l’insegnamento è una missione, una vocazione la cui chiamata forse non è mai giunta all’indirizzo dell’autore. E individuare nel sessantotto la nascita della tragedia (non quella nicciana) che ha travolto la nostra scuola , ha senso soltanto intesa all’inverso di ciò che Perboni sostiene. Non è la reazione a quel movimento che ha portato la scuola nelle condizioni disastrate di oggi ma proprio l’affermarsi di quelle istanze pseudorivoluzionarie. Ed il sei a tutti costi di cui Perboni lamenta la richiesta da parte degli studenti odierni è soltanto la degenerazione di quel tristo “18 politico” creato da quei “formidabili” anni di capanniana memoria. Come fa il nostro deamicisiano professore a prendersela con cinquant’anni di scudo crociato quando da almeno quaranta (dal sessantotto appunto) l’istruzione e la cultura di questo paese sono state saldamente in mano alla parte politica (left oriented) da cui egli stesso proviene? Forse una buona, sana, vecchia autocritica non farebbe male anche a lui.
mercoledì 14 ottobre 2009
Pollini torna a casa
lunedì 12 ottobre 2009
Pellèas e Mèlisande
“La natura è un tempio in cui dei vivi pilastri lasciano talvolta uscire confuse parole; l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli che lo osservano con sguardi familiari. Come lunghi echi che di lontano si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e la luce, i profumi , i colori e i suoni si rispondono.” Inizia così il sonetto “Correspondances” nel quale Charles Baudelaire (1821-1867) fissa quello che può essere considerato il manifesto del simbolismo poetico francese di cui Claude Debussy (1862-1918), mettendo in musica il dramma del belga Maurice Maeterlinck “Pelléas e Mélisande”, fece proprie le istanze seppur adeguandole alla propria originale e per molti versi sovvertitrice poetica. Dieci anni di lavoro non privi di aspri dissensi con il drammaturgo belga portarono nel 1902 ad una prima esecuzione accolta piuttosto freddamente dal pubblico dell’Opera di Parigi. Fu soltanto qualche anno dopo che l’opera si affermò per quel capolavoro che è senza tuttavia mai raggiungere la popolarità di una Carmen o di un Verdi qualsiasi. Non è un caso del resto perché di opera assai complessa si tratta sia nella messa in scena che dal punto di vista musicale. L’orchestra di Debussy è volta alla cristallizzazione dell’attimo così come l’impressionismo nella pittura (l’altra corrente artistica che influenzò il musicista francese), un’arte quindi attenta alla ricerca della bellezza avulsa da qualsiasi dialettica e tesa all’isolamento della singola illuminazione. In questo egli può essere davvero considerato il fondatore del novecento musicale. Il germe di quella contrazione linguistica che culminerà nelle scariche elettriche fulminanti dei pezzi per pianoforte di Anton Webern e Arnold Schönberg, è qui già latente.
E’ evidente che una musica siffatta fosse quanto di più distante si potesse immaginare dall’opera che è costituita al contrario di azione, declamazione , assertività. Per questo quando Debussy vide Pelléas e Mélisande ne rimase profondamente turbato e comprese che quella poteva essere la storia adatta al teatro musicale che aveva in mente, costruito su un gioco di rimandi, dove il non detto è di gran lunga più importante di quel che avviene sulla scena. L’amore tra i due protagonisti infatti non è dichiarato che un attimo prima della catastrofe, quando Golaud scopre ed uccide il fratello Pelléas e sfiora appena la consorte Mélisande la quale morrà lo stesso, come un uccellino che, incapace di volare, si spenga mestamente. Gianluigi Gelmetti ha dato l’impressione di possedere completamente quest’opera ed assecondato da un compagnia di cantanti ineccepibile anche attorialmente, ha diretto da par suo l’orchestra dell’Opera di Roma in grande forma che ha restituito con veridicità il tessuto sottile della partitura. Bene quindi la parte musicale che, come non si ripeterà mai abbastanza, è quella principale nell’opera che anzitutto di note è fatta. Ma il teatro è anche regia, costumi, scene e qui bisogna aprire un discorso diverso. Come mai nell’epoca della filologia, della prassi esecutiva, dell’attenzione maniacale alle minime notazioni musicali degli autori si accompagna invece il totale stravolgimento dei libretti? E dire che “Pelleas e Melisande” , libretto nel senso stretto del termine non è, perché Debussy volle mettere in musica l’intero dramma di Maeterlinck ( e così fece salvo qualche taglio ) quindi far carne di porco delle indicazioni sceniche vuol dire venir meno infischiandosene, degli intendimenti di due autori. Arkel è il re di Allemonde e Golaud e Pelleas sono due principi. Perché vestirli di stracci con le infradito ai piedi rendendoli tre barboni? E perché in luogo del castello dove vivono troviamo un utero sezionato? Ed ancora perché fare di Melisande (una bravissima Monica Bacelli)una specie di Pierrot Lunaire espressionista, calva per giunta laddove non si fa altro nell’opera che esaltarne le chiome fluenti? Ce lo fate vedere signori registi, scenografi e costumisti (stracciaroli) moderni, un re vestito da re con la corona in testa o siete troppo preoccupati di vendere un prodotto che faccia parlare di voi piuttosto che servire quegli autori che, volenti o nolenti, sono quelli che vi danno da mangiare? The answer my friends is blowin’in the wind….
venerdì 9 ottobre 2009
Onore ai caduti
Chi appartiene alla brigata Folgore non conosce questa parola. Quando ad El Alamein i paracadutisti si arresero agli inglesi lo fecero senza alzare le mani e con le armi in pugno. E i soldati britannici (quest’anno hanno perso 200 uomini a Kabul), che avevano lottato increduli della capacità di resistenza di quel manipolo di eroi, che erano e sono custodi una nazione che ha vinto tutte le guerre che ha combattuto, resero l’onore delle armi a quella bandiera con la folgore nel mezzo. Anche Winston Churchill in un famoso discorso alla camera dei comuni riconobbe il valore di quella brigata definendo quei ragazzi dei leoni. Chi diventa paracadutista non lo fa per i soldi. Mai.
lunedì 14 settembre 2009
Karajan vent'anni dopo
Il respiro, questo era il lirismo di Karajan, il suo canto era naturale come il respiro. Il suo gesto direttoriale rimane a tutt’oggi come un unico ed irripetibile miracolo così come il suono che quel gesto faceva sortire. Cos’hanno di speciale gli attacchi di Karajan? Con lui la musica non iniziava, non si aveva la sensazione che qualcuno cominciasse a suonare, piuttosto l’impressione era quella di un suono già esistente che improvvisamente veniva a noi, ci si rivelava. E’ ciò che durante una prova Carlos Kleiber (suo devoto ammiratore per tutta la vita) cerca di far intendere all’orchestra dicendo ai violini:” Lasciate che sia il vostro vicino a cominciare”. Quel lirismo che ha in Wagner e Strauss i suoi autori di riferimento: semplicemente prima di lui nessuno li suonava così e dopo di lui tutti ci hanno provato. Ma anche Beethoven, Brahms Bruckner . Inoltre egli uscì dal germanesimo che pure lo aveva generato per rivolgersi all’opera italiana, con risultati non meno che eccelsi, il suo Verdi o il suo Puccini (per me Otello e Boheme su tutti) restano ad imperitura memoria insuperati ancora oggi. Una curiosità poi è legata ad una delle sue incisioni più memorabili, la Carmen di Georges Bizet con una ipnotica Leontyne Price. Durante la registrazione del disco giunse la notizia dell’assassinio del presidente Kennedy e la Price, statunitense e nera ne fu così turbata che il produttore voleva concedere un paio di giorni di pausa alla sessione d’incisione. Karajan riuscì a convincere la Price che cantò così la famosa scena delle carte (in cui pesca la morte) poche ore dopo la notizia. Il risultato è sconvolgente. Questo cinismo seppur volto a scopi sempre musicali è fatto della stessa materia di cui parla Isaiah Berlin che lo definì “Un genio con una spruzzata di zolfo intorno” , riferendosi alla sua appartenenza al partito nazista fino al 1945, ma Karajan pur di dirigere avrebbe preso anche la tessera dell’inferno . D’altra parte sposò un’ebrea nel 1942, Anita Gueterman, segno evidente che di ideologico in quella adesione ci fu poco. La politica del resto non entrò mai nella sua vita la quale fu volta esclusivamente alla musica, nella sua totalità.
“La pasta, la pasta di cui era fatto quel suono che i Berliner avevano raggiunto con lui non c’è più e non solo nei Berliner ma da nessun altra parte al mondo. “ Questo mi racconta Umberto Nicoletti Altimari, della direzione artistica dell’Accademia di S. Cecilia nonché vera autorità italiana sul pianeta Karajan . “Cosa ho di lui? E’ Semplice. Tutto. “ Se volete saper qualcosa su Karajan chiedete a quest’uomo la cui devozione al Maestro (posso dirlo vantando un’amicizia quarantennale) è stata una malattia cronica e manifestatasi in giovanissima età. “ Michel Glotz , un uomo che dedicò parte della sua vita a Karajan, lo definì cosiì “Un bambino ed un vecchio cinese molto saggio questa era la straordinaria combinazione che fu Herbert von Karajan“.
In anni in cui non si parlava ancora di civiltà dell’immagine lui costruiva la propria. Quella di un perfezionist a in tutto ciò che faceva. Da qui anche un’iconografia che può far sorridere, pilota d’aereo, di macchine da corsa, sciatore, al timone del suo Yacht Helisara ( Herbert, Eliette, Isabel, Arabel ), sì che ci si chiedeva dove trovasse il tempo di dedicarsi a tutte queste attività un uomo che fu contemporaneamente direttore dei Berliner, della Wiener Staatsoper nello stesso anno in cui allestiva al Teatro alla Scala altre due grandi produzioni . E’ di quegli anni questa storiella: Karajan sale su un taxi, il tassista:” Dove la porto?” “ Karajan:” Mi porti dove vuole tanto mi vogliono tutti.”
domenica 13 settembre 2009
Benedetto Croce e l'onestà politica
Ma è il finale del capitolo che è impressionante chè pare scritto ieri : ” Vero è che questa disarmonia tra vita propriamente politica e la restante vita pratica non può spingersi tropp’oltre perché se non altro, la cattiva reputazione prodotta dalla seconda, rioperando sulla prima le frappone poi ostacoli…o l’ipocrisia degli avversari può valersene come arma avvelenata… ma questo è un altro discorso.” Invece pare proprio il nostro.
Guida alle messe
Ma fortunatamente pur nell’italica approssimazione di fedeli che non si inginocchiano , che prendono l’Ostia “…con le zampacce.” O addirittura “ …si servono da soli a buffet” ci sono anche tanti luoghi dove incontrare Gesù è possibile , per esempio a Montalcino : “Non conosce il culto divino chi non è mai stato a S. Antimo….sette frati adoranti che spingono ad adorare: qui nessuno si sogna di non inginocchiarsi. Predica esemplare, breve, aderente al vangelo, bellissima, che ci trasforma tutti in Re Magi alla ricerca di una madre e di un bambino.” Questo libro è un intervento importante che dovrebbe avere un qualche riscontro istituzionale dalla Chiesa e che ci pone dinanzi implicitamente, anche le responsabilità politiche della diseducazione religiosa. Infatti se Langone lamenta una scarsa attenzione ( ignoranza) tra coloro che le messe le celebrano e le ascoltano, la situazione ( ancora l’ignoranza) in chi si professa non credente va molto oltre, anche tra persone di livello culturale non infimo. Non saper nulla di religione del resto rientra nei diritti del cittadino. Quando negli anni ottanta (1985) , con l’acquiescenza della santa sede, passò la sciagurata legge che rendeva facoltativo l’insegnamento della religione nella scuola italiana, tra le molte voci che si levarono in favore di tale iattura, vi fu quella di Umberto Eco nella sua rubrica sull’Espresso: “…se l’insegnamento della religione si identifica con il catechismo cattolico allora è nello spirito della Costituzione che sia facoltativo.” Fedele d’Amico sullo stesso giornale gli rispose: “Nello spirito, anzi nella lettera della Costituzione è che sia facoltativo praticare una religione piuttosto che un’altra o non praticarne affatto, non che lo sia l’ignoranza della religione…. La dottrina cattolica è storicamente alle basi immediate della “nostra” storia culturale , italiana ed europea, che fino a ieri si è tutta svolta in rapporto con essa, concorde o discorde fa lo stesso (come spiegare chi erano gli Ugonotti, o Lutero, a chi di dottrina cattolica non sappia nulla?).” Parole sante, con rispetto parlando. Certo oggi la nostra è una società multireligiosa ma a maggior ragione dovremmo essere più informati sull’argomento. Come possiamo pretendere di rispettare le altrui radici quando non conosciamo neanche le nostre? E non si tratta di essere credenti o meno ma ignoranti o no. Ecco perché Guida alle messe è un libro che andrebbe letto nelle scuole (dopo avervi ripristinato l’insegnamento della religione) dove invece oggi, ragazzini privati di quel nutrimento, quel cibo per l’anima che solo la religione è in grado di offrire, cercano in surrogati fatti di maghi e maghetti , sette sataniche e religioni new age, omeopatia e droghe varie, quella speranza di uscire dal mondo materiale che è il nodo centrale delle nostre esistenze. A Langone un solo appunto: il suo sens of humor è decisamente british, in odore di protestantesimo. Attenzione!
Il Palio di Siena
D. Cosa ne pensa di Pierre de coubertin?
R. O chi è?
D. Un nobile francese teorizzatore del moderno spirito olimpico.
R. E cosa dice?
D. Nelle competizioni, l’importante è partecipare.
R. Per me è un bischero!
E’ necessario innanzitutto far pulizia da equivoci. Non è una corsa di cavalli. La corsa è soltanto la manifestazione terrena di ataviche pulsioni. La guerra, prima e più terribile fra tutte. Ma anche l’amore per la patria (cos’altro è la contrada?) il coraggio, la paura, la velocità, la vittoria. L’Oca contro La Torre, La Pantera contro L’Aquila, La Lupa contro L’Istrice. Nel Palio non conta solo vincere chè quasi più importante è far perdere la contrada nemica. Se non si capisce questo i fantini che alla Mossa si molestano e si parlano , promettendosi soldi e vendendosi magari al nemico, sembrano burattini privi di discernimento. Invece sono dieci assassini. La regola è una sola: vincere a qualunque costo e con qualsiasi mezzo. Come in guerra. Il Sunto, la campana sorda che suona dal mattino è la stessa che chiamava i cavalieri a difesa della repubblica senese nel 1400. Quel suono sotteso, senza che tu te ne accorga ti entra in testa e colpisce come una goccia che a poco a poco diventa una marea, un fiume di inquietudine. Quando improvvisamente tace, nella piazza scende il silenzio . E’ il momento di montare a cavallo , i fantini escono dall’entrone, il cortile del Palazzo Pubblico dove attendono l’inizio della corsa e prendono il nerbo di bue che mostrano col braccio alzato alla contrada. Sono gli attimi che precedono la battaglia, solo chi ha combattuto li conosce, qui a Siena si può viverli, toccarli, annusarli. Odorano di paura. Hanno il sapore acre della fame, della miseria; un tempo i fantini venivano da lì.
Parla Tremoto “Ero partito a tredici anni dalla Sardegna per fame. Montavo nelle corse in siepi per dodicimila cinquecento lire e in provincia, sull’asfalto, per quindicimila. Dopo il primo Palio il Capitano della Chiocciola mi diede una pacca sulla spalla e un assegno da tre milioni e mezzo. Io non ci credevo, quasi non sapevo che esistessero tanti soldi. Passai la notte seduto sul letto a fissare quel foglio di carta.”
Oggi un fantino che vince il Palio può guadagnare milioni ma l’origine è la stessa, la fame di vittoria passa ancora dal coraggio se come dicono “Il pane del Palio è duro sette croste”.
Quando cade il Canape e i cavalli partono accade qualcosa di irreale, il tempo rallenta bruscamente la sua corsa, non si ferma del tutto ma dilata e deforma la realtà come un grand’angolo. In quel limbo senza tempo gli incitamenti ,le urla di gioia e disperazione si susseguono come in un sogno dal quale si viene risvegliati ai tre spari di fine gara . Domenica ha vinto La Civetta , dopo trent’anni. Ultimo Palio vinto nel 1979.
A fine corsa mi sono precipitato per la strade della città e ho visto i contradaioli della Civetta che andavano al Duomo con il Palio vinto a ringraziare la Madonna. Piangevano tutti. C’era un omone che singhiozzava più forte , aveva sulle spalle un bambino. Si è fermato e abbracciando un amico, scosso dalle lacrime anche lui, ha detto: “ L’ultimo Palio vinto me lo ricordo in collo al mio babbo.” E’ difficile non commuoversi quando si è in mezzo a migliaia di persone che insieme piangono di gioia così sono arrivato a Porta Camollia che piangevo anch’io. Sono salito in macchina e dopo pochi chilometri sono entrato in un Mc Drive. Un doppio cheeseburger e Coca Cola consumati alla guida mi hanno dato la certezza di essere tornato nel ventunesimo secolo. Ho pensato a tutti quelli che contestano Mc Donald, un ristorante dove si mangia con 6 euro, considerandolo come emissario del male. Sono gli stessi che accusano i senesi di crudeltà verso i cavalli. A Siena i cavalli sono venerati ,considerati come persone e coccolati più di un primogenito.
Difficile del resto pensare che non ami i cavalli gente che se ne occupa per una vita, che si alza alle 4 di mattina per portarli fuori, che li lava li nutre e li fa correre. Anche in natura I cavalli i galoppano, gareggiano tra loro e ogni tanto si azzoppano. L’uomo e il cavallo hanno fatto gran parte della nostra storia. A settembre a Palio vinto, la contrada celebra la vittoria con una cena. A capotavola c’è l’ospite d’onore, che mangia su un vassoio d’argento biada e zucchero: è Il cavallo vincitore. Non è amore questo? Strano mondo il nostro. Uccidiamo milioni di bambini prima che nascano e facciamo la morale a chi fa correre i cavalli. Sì è vero nel Palio c’è violenza , c’è la tragica bellezza della guerra e del coraggio ma non sono anche queste caratteristiche umane? Forse fra mille anni quando nessuno al mondo userà più violenza contro un suo simile, le persone ameranno il loro prossimo come se stesse e non ci saranno più armi , anche allora in quell’eden (ma sarebbe poi tale?), il Palio di Siena servirà a ricordare a tutti com’era la vita sulla terra quando gli uomini combattevano.
sabato 11 luglio 2009
Lang Lang a Roma con Tom e Jerry
Ventiquattro anni fa a Shenyang, un bambino cinese di due anni vide in televisione il celeberrimo cartone animato di Hanna e Barbera in cui Tom e Jerry si incontrano sul palcoscenico di una grande sala da concerto dove Tom il gatto, fasciato da uno splendido frac, si esibisce suonando la rapsodia ungherese n.2 di Franz Liszt mentre il topino Jerry, nascosto nel pianoforte, gliene combina di tutti i colori. Quel bambino, che si chiamava Lang Lang, si innamorò di quello strumento e decise che un giorno lo avrebbe suonato. Oggi a ventisei anni, Lang Lang è un’autentica star internazionale (la rivista Time lo ha inserito nelle 100 persone più influenti del mondo) e dopo un tour che lo ha portato attraverso i cinque continenti (ma dipendesse da lui credo suonerebbe senza problemi anche sulla Luna) è approdato a Roma dove l’accademia di S. Cecilia gli ha dedicato un minifestival che porta il suo nome:Lang Fest. E festa autentica è stata se dopo due ore e passa di concerto il pubblico romano, certo non facile agli entusiasmi, è scattato in piedi per una standing ovation di quattro minuti. D’altra parte l’entusiasmo è la caratteristica dominante dello sfavillante pianismo di questo virtuoso, capace di infiammare il pubblico quanto una rock star. Di più. Capace di portare all’Auditorium quasi 8000 persone (i concerti erano tutti fuori abbonamento) che senza alcun dubbio si sono divertite e questo, parlando di musica classica, è un fatto importante. Ciuffo ribelle ingelatinato, atteggiamenti istrionici ai limiti del contesto pur sempre serio all’interno del quale si muove, scarpe Adidas create appositamente e che portano il suo nome (nere a strisce d’oro), si è parlato di lui come di un fenomeno mediatico allestito per il marketing e certo in parte questo corrisponde al vero. Bisogna dire però che un simile carrozzone non si costruisce sul nulla. Perché di fenomeno autentico si tratta e dei più eclatanti. Talento allo stato puro, che in quattro serate, diversissime tra loro, ha avuto modo di esprimersi per sottolineare la versatilità di questo ventiseienne, cui Dio ha donato dita meravigliose che egli ha successivamente provveduto, attraverso una tecnica trascendentale, a rendere una macchina pianistica perfetta. Nelle quattro date romane, dal 2 al 5 giugno, ha suonato nell’ordine: in un quintetto con i solisti dell’orchestra dell’Accademia, come solista, quale accompagnatore di bel canto con Cecilia Bartoli e con l’orchestra dell’Accademia diretta da Cristoph Eschenbach. Dovendo operare una scelta ho optato per il concerto solistico che presentava un programma di assoluto interesse: dallo Schubert (1797-1828) sommo della sonata postuma in la maggiore D. 959, alla Polacca op.53 in la bemolle maggiore di Chopin (1810-1849) , passando attraverso la sonata (unica) di Bela Bartòk (1881-1945) per finire con alcune gemme di Claude Debussy (1862-1918) tratte dal primo e secondo libro dei Preludi. Un programma da far tremare i polsi che Lang Lang ha invece snocciolato tutto a memoria (escluso Bartòk) con una semplicità a tratti disarmante, dimostrando anche in questo una prodigiosa attitudine. Grande divertimento dunque ed il merito di portare verso la musica colta un pubblico nuovo, diverso da quello fedelissimo, ma un poco museale, degli abbonati. Se ne è avuta conferma quando alla fine del primo movimento della sonata di Schubert, quasi l’ intera platea è esplosa in un applauso fuori luogo dettato sì dall’entusiasmo ma anche dalla scarsa conoscenza della forma musicale che si andava dipanando. Detto questo tuttavia, a livello emozionale si ha la sensazione di rimanere in superficie sì che Schubert, Bartòk, Debussy, Chopin, scorrono via uno dopo l’altro lasciandoci l’impressione di aver ascoltato un unico musicista: Lang Lang. Ora si tratta di stabilire un confine tra il virtuoso e l’interprete e se il pianismo di Lang ben si adatta alle forme musicali impressionistiche, costruite attraverso illuminazioni, colori, che risolvono se stesse nella brevità che le caratterizza, il discorso cambia laddove i tempi si dilatano. Così il dolente, struggente andantino della sonata D.959 di Schubert ,”…Giano bifronte sempre toccato dall’alito della morte”, secondo la splendida definizione di Thomas Mann, è trascorso asettico, privo di dolore. La musica, tra tutte le arti, è quella che parla al nostro intimo e lì Lang Lang non arriva. Latita il canto, nel senso letterale del termine, le melodie sono come inglobate in un universo che, se dal suo continuo divenire trae forza e vitalità, rischia però di risolversi in una esibizione di tecnica che se pur scintillante non basta a penetrare nel profondo dell’’animo. Anche la polacca op.53 di Chopin sembrava del tutto all’oscuro del sentimento di straziante nostalgia che il musicista in esilio nutriva per la sua patria lontana. Il dolore non si può studiare sui libri, va assaporato, vissuto per poter esser successivamente decantato in arte. E allora due strade sono innanzi al giovane virtuoso. La prima, più facile e redditizia è quella di gettarsi anima e corpo nelle esibizioni pubbliche. L’altra, più oscura ma alla fine artisticamente vincente, è l’approfondimento, lo studio, l’adeguare le proprie cognizioni alla tecnica affinchè essa rimanga un mezzo e non diventi un fine. Lang Lang fin’ora ha percorso la prima: dal 2 giugno alla fine di agosto si esibirà trentaquattro volte in pubblico, una media di un concerto ogni tre giorni. Certo Arturo Benedetti Michelangeli, che quei debussiani preludi studiò per cinque anni prima di eseguirli in concerto è un caso estremo ma lo stesso Maurizio Pollini di cui appena diciottenne si parlava come un nuovo Liszt, si dedicò all’attività concertistica con grande parsimonia. E se ne sono poi visti i risultati. Una carriera perfetta sotto ogni punto di vista. In un’intervista a Gino Castaldo su “La Republica” dello scorso mese Lang dice che fare il pianista classico non vuol dire chiudersi in una scatola; ha senz’altro ragione ma tra chiudersi in scatola e fare un concerto un giorno sì e uno no, crediamo esista una via di mezzo. Forse allora, adesso che a soli ventisei anni è già il pianista più famoso del mondo, può ripensare alla sua carriera, volgere lo sguardo e forse esplorare l’altra via. Magari in compagnia di un grande mentore che sembra averlo preso sotto la sua ala: quel Daniel Baremboim la cui acutezza di musicologo non è seconda alle doti immense di pianista. Altrimenti corre il rischio di diventare come il suo eroe Tom, rutilante, simpatico e divertente ma pur sempre un cartone animato.