venerdì 9 ottobre 2009

Onore ai caduti

Trenta anni fa in una tiepida mattinata di fine estate, sul piazzale della scuola militare di paracadutismo di Pisa, il sergente Ennio Druda, di fronte alla compagnia schierata sul riposo, proferì , senza dissimulare il suo accento romano, queste parole : ” So che tra i nuovi arrivati c’è uno della Lazio.” Non potei far altro che muovere un passo avanti uscendo dalla fila, la prima, come spesso capitava a chi come me non arriva al metro e settanta. “Lei sa che io sarò il suo sergente? “ chiese quell’uomo non più alto di me ma fatto di una materia che assomigliava alla pietra. “Sissignore!” replicai gridando con tutto il fiato che avevo in corpo. “ E sa anche per quale squadra tengo io ?” Continuò il sergente. “Sissignore, me lo hanno detto signore!” A questo punto quel volto di granito si increspò leggermente sfiorato dall’ombra di un sorriso :“Si faccia un paio di giri di corsa e benvenuto.” Così iniziò, dopo il corso durissimo che mi aveva brevettato paracadutista, la mia breve avventura nella Folgore. Oggi Ennio Druda è un Tenente Colonnello e ha fatto un bella carriera nonostante la sua fede calcistica.
Quando la tristezza ed il lutto ci stringono il cuore cerchiamo di allentarne la morsa andando a cercare qualche ricordo allegro, spensierato. La condizione di quando si è giovani e si ha il cuore traboccante di sogni. Sogni spezzati per Antonio, Davide, Matteo, Roberto, Massimilano e Giandomenico, paracadutisti saliti in cielo per non saltare più. Dall’aereo infatti non ci si butta, si salta . E’ un tuffo verso le nuvole . Chi sceglie questo corpo ama l’azzurro della volta celeste e la sensazione che si prova attraversandola in volo.

Anche a me piaceva volare e l’idea di salire su di un aeroplano senza poi doverci atterrare aveva un fascino irresistibile. Dunque quando ai tre giorni ( così si usava chiamare quel breve periodo in cui i maschi italiani diciassettenni venivano convocati al distretto militare per verificarne l’ idoneità al servizio) vidi quel soldato con il basco amaranto che reclutava volontari per il corpo dei paracadutisti , alzai la mano e firmai le carte per l’arruolamento. Fu subito dopo, appena il parà reclutatore fu uscito che gli altri ragazzi che condividevano con me quei momenti mi si avvicinarono allibiti. “Ma che sei matto?” – vociavano- “Si.” -risposi atteggiandomi un poco.

Ma non ero matto. Credevo però che dovendo passare un anno servendo il mio paese come soldato avrei preferito fare qualcosa di attivo piuttosto che trascorrerlo giocando a briscola in qualche ufficio di distretto militare. Certo è che quando dopo due anni arrivò la cartolina che mi assegnava alla scuola di paracadutismo di Pisa, non ne fui proprio entusiasta ma ormai era fatta. Partii non senza qualche timore. Mi avevano parlato di fascisti, di un corpo di invasati dove regnava il terrore ed invece trovai una spaccato d’Italia quale, nel mio mondo dorato della Roma bene, non potevo avere idea. Quando la vita è dura e faticosa gli uomini tendono ad affratellarsi. Se poi c’è un pericolo imminente ( e saltare da un aereo o da un elicottero in volo lo è) allora le amicizie nascono più facilmente. Di politica, in un anno passato tra Pisa e Livorno non intesi mai parlare. Trovai ragazzi generosi accomunati da un senso del dovere che mi era sconosciuto.

Del primo lancio ricordo ogni singolo istante. Da quando seduti sulla pista ci si mette il paracadute, controllandosi a vicenda ed affidando quindi la propria vita al compagno dietro di te, al momento in cui si aprono le porte e i motori rallentano fin quasi a fermarsi . Oltre la porta c’è il cielo, immenso e blu come può esserlo solo tuffandocisi dentro e quando salti fuori ed il vento ti gira di 90 gradi ti ritrovi a guardare la coda del C130 che sta sputando il tuo commilitone, quello uscito dopo di te. Tanto è veloce la sequenza del lancio dentro l’aereo quanto rallentato il tempo fuori dal velivolo. A quel punto il paracadute si apre e ti ritrovi seduto nell’aria, nel silenzio, immobile ti sembra, perchè la velocità di caduta non la valuterai che a pochi metri da terra. Allora ridi, forte, succede a tutti, chè se da una parte è il sintomo dello sciogliersi di una tensione accumulatasi giorno dopo giorno durante il corso di preparazione, dall’altra è felicità vera, gioia pura, di quella che ci è dato assaporare solo a vent’anni. E a quell’età la paura della morte non la si conosce convinti come si è di essere immortali.

Non facevo la guerra io, ma soltanto il servizio militare che allora era obbligatorio e che veniva considerato una perdita di tempo quando non qualcosa di peggio, un inutile addestramento ad una guerra che non sarebbe mai arrivata. Invece ora ne stiamo combattendo una contro un nemico spietato ed invisibile che non ci permette di contrastarlo. I nostri soldati muoiono spesso senza aver la possibilità di difendersi, nell’ipocrisia della “missione di pace” che stabilisce regole d’ingaggio adatte a proteggere l’ordine pubblico fuori da uno stadio di calcio, non a muoversi in mezzo ad un campo di battaglia. Non siamo in Afganistan per invadere questo paese ed occuparlo (questo significa il ripudio della guerra nella lettera della costituzione) ma per lottare contro il terrorismo e proteggere un popolo da una delle più sanguinarie e medioevali accolite di criminali che abbiano mai avuto in mano il governo di una nazione. Nemmeno Hitler sterminava i suoi connazionali con tanta ferocia ed indiscriminazione. A Kabul come a Bagdad ci sono islamici che uccidono altri islamici, senza discernimento, spietatamente. Ed odiano i nostri soldati che sono lì per proteggere gli inermi. E da questi sono amati e riconosciuti. Per farlo però devono prima salvaguardare se stessi. A ciò servono le armi che hanno in dotazione. Ma non c’è al mondo nulla di più inutile di una pistola scarica, e questo è troppo spesso ciò che i nostri soldati hanno in mano. Siamo in quella regione in nome della pace sì, ma anche per fare la guerra.

E’ disgustoso vedere la finta commozione di quelli che di fatto, sia a destra che a sinistra, disarmano le nostre forze armate e che sono poi i primi dopo ogni caduto (così si chiamano i morti in guerra) a parlare di ritiro. Ieri ho visitato il sito di Antonio Di Pietro che non capisce cosa ci stiamo ancora a fare laggiù e sostiene che bisogna ritirarsi. Lui se ne intende , lo ha già fatto quando nel 1994 ha lasciato la magistratura per dedicarsi all’attività certo più redditizia di uomo politico. Si ritiri lui.
Chi appartiene alla brigata Folgore non conosce questa parola. Quando ad El Alamein i paracadutisti si arresero agli inglesi lo fecero senza alzare le mani e con le armi in pugno. E i soldati britannici (quest’anno hanno perso 200 uomini a Kabul), che avevano lottato increduli della capacità di resistenza di quel manipolo di eroi, che erano e sono custodi una nazione che ha vinto tutte le guerre che ha combattuto, resero l’onore delle armi a quella bandiera con la folgore nel mezzo. Anche Winston Churchill in un famoso discorso alla camera dei comuni riconobbe il valore di quella brigata definendo quei ragazzi dei leoni. Chi diventa paracadutista non lo fa per i soldi. Mai.

Uno dei miei amici più cari, Luciano Ferrara, l’ho conosciuto lì. Dopo sei mesi passati insieme a Pisa io fui aggregato ad un'altra compagnia e venni trasferito a Livorno. Finito entrambi il servizio militare rimanemmo in contatto per un paio d’anni, lui a Torino ed io a Roma, successivamente cambiammo casa e ci perdemmo, non c’erano ancora i telefonini. Non ci siamo visti né sentiti per dieci anni cercandoci senza successo. Poi nel 1992 mi capitò di dover recitare a Torino. Stavolta ritrovo Luciano pensai, ho il suo vecchio indirizzo e qualcuno mi saprà dire dove abita. Il giorno del debutto ero ospite a Domenica In a Roma e per questo presi un’aereo con metà della mia compagnia che avrebbe dovuto atterrare alle 16 nel capoluogo piemontese. Ma quel giorno c’era la nebbia e il paracadute non lo avevo più, così dopo aver volato in cerchio per più di un’ora sopra l’aeroporto di Torino ci ritrovammo ad atterrare a Genova quando erano già le 18. Nebbia fitta anche lì. In teatro la legge prevede che se un attore non arriva in tempo deve pagare l’incasso della sala piena, così ci affidammo alla pazzia di due tassisti genovesi che per un milione di lire guidarono nella nebbia scaricandoci davanti al teatro alle 21 in punto, ora di inizio dello spettacolo. La sala era già piena. Scesi dal taxi con il cuore in gola e mi trovai davanti Luciano. Aveva letto sul giornale che recitavo lì e mi aspettava dal pomeriggio. Ci abbracciammo commossi. Non ci siamo più persi da allora e giovedì dopo aver saputo della strage di Kabul ho chiamato lui, il mio vecchio amico parà.


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